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La lingua è un bene intangibile, eppure dal modo in cui parliamo si possono ripercorrere le tappe di una vita sempre più nomade

“Ciao, com’è?”

No, non sono di Torino, o almeno non ci sono nata. Eppure, nonostante i sensi di colpa verso la mia laurea in Lettere e i cinque anni di Liceo Classico, potrei comunque saltarmene fuori da un momento all’altro con un’uscita sgrammaticata tipo “Attento, ancora cadi, vez! C’è solo più un gradino ancora!” L’intento bonario di salvare qualcuno dal rischio imminente di una caduta resta, ma la domanda è: in che lingua sto cercando di comunicare con te?

Potrebbe sembrare roba da poco, cose che interessano solo gli “addetti ai lavori”, ma la lingua è un bene costitutivo della persona, è parte della nostra appartenenza e, quindi, della nostra identità. Per essere chi siamo abbiamo bisogno di esprimerci e farlo con una lingua o un’altra ci cambia.

Il primo esempio, forse banale, che mi viene in mente: da quando vivo a Torino ho scoperto che i piemontesi, quando vogliono chiederti un favore, lo fanno attraverso la formula “Hai voglia di…?”. Potrebbe sembrare una gentilezza, ed è sicuramente un modo molto cortese di chiedere qualcosa, ma di fatto solo un’espressione formulare, un tòpos, come quando i Greci chiamavano Achille “piè veloce” anche nel momento in cui Achille non era stato abbastanza veloce da schivare la freccia di Paride (proprio al piede, tra l’altro). Quindi, tornando a noi, quella che all’orecchio di un estraneo potrebbe passare per cortesia è in realtà un modo standard per chiedere qualcosa. A Bari, dove sono nata io, se qualcuno dicesse “hai voglia di prestarmi 50 euro?” la risposta sarebbe probabilmente un elenco di improperi: “Ma ti pare che possa averne voglia?”. No. Quindi se proprio qualcuno deve chiederlo lo farà ad occhi bassi, con sguardo colpevole e un che di congiunzione che però non sta congiungendo proprio niente: “che per caso mi presti 50 euro?”.

La storia dell’italiano si lega a doppio nodo con quella geopolitica del nostro Paese e se possiamo sicuramente dire che il nostro idioma è nato nel bacino delle lingue romanze, tra quelle derivate dal latino, la sua evoluzione è stata ben più complessa. I poeti siciliani e quelli toscani tra il ‘200 e il ‘300 sono stati decisivi per dare spazio a quello che allora veniva definito “volgare” e che oggi è, di fatto, diventato italiano. Poi le influenze spagnole, francesi, arabe e anglosassoni hanno fatto il resto.

Ma qui arriviamo al punto (anche per non annoiare i lettori con un excursus linguistico per cui rimando a voci più esperte della mia): quella che fino al 1200 era considerata la lingua del volgo, un modo di parlare ufficioso e non adatto alle comunicazioni istituzionali o alla letteratura, si è evoluto proprio nella letteratura per diventare il nostro parlato. Ecco, anche oggi abbiamo una scissione simile, seppur tripartita: esistono la lingua italiana canonica da una parte e, dall’altra, gli italiani regionali e i dialetti locali che variano in base all’area geografica. Alcuni modi di dire, infatti, sono dei veri e propri indizi della provenienza del parlante. Ma è ancora così?

Dalla generazione X in giù (millennials, y, z, tutto l’alfabeto compreso!) ci siamo adattati a una vita da nomadi, inseguendo lavori e corsi di studio che ci portano in giro per l’Italia (e non solo) cercando di perseguire la tanto agognata stabilità. Siamo di Catania e viviamo a Milano, veniamo da Caserta, studiamo a Bologna e lavoriamo a Torino, nasciamo a Potenza, cresciamo e studiamo a Napoli e cerchiamo lavoro a Londra, frequentiamo le migliori università di Milano e apriamo un bed and breakfast in Sardegna. Tutti così, chi più chi meno, in ogni modo possibile. E finiamo per incontrarci in aule e uffici riscoprendoci uguali nel nostro status di nomadi e tutti diversi nel nostro modo di parlare. E poi?

Poi passano due, tre anni o quanti te ne toccano e ti ritrovi ad assorbire parlate di tutta Italia, cadenze, inflessioni e modi di dire.

Non c’è più un’inflessione riconoscibile: certo alcune sono più forti e influenti di altre e un romano lo fiuti a 100 km di distanza, ma linguisticamente siamo delle vere e proprie spugne, una commistione di culture di cui non conosciamo neanche del tutto l’essenza. Come parliamo, dunque, alla fine? Il nostro idioma quotidiano di cosa è figlio, da dove viene? È la nascita di una nuova lingua? Un nuovo italiano conseguenza di un nuovo modo di vivere l’Italia? E chi sono io, in che modo questa lingua mi rappresenta?

Ogni volta che dico ‘vez’ sono figlia degli anni trascorsi con un’amica bolognese; se chiedo un ‘cicles’ o una ‘paglia’ i miei genitori sono gli anni trascorsi al Nord Italia; quando rido di qualcuno che fa una sciocchezza potrei dargli del ‘piciu’ come fanno a Torino o del ‘pota’ come fanno a Bergamo, come mi hanno insegnato gli amici cresciuti in queste città, mentre se ti vedo combinare una “marachella” potrei dirti che sei un ‘bischero’ citando mio fratello e la sua ormai decade di vita in quel di Firenze. Poi, se invece respiro più forte l’aria di casa mia, ti darò del ‘trimone’: a Bari quello è un passepartout che va bene in ogni occasione!

Quando un volto caro si rabbuia potrei chiedergli “what’s going on?” come mi ha insegnato mio padre, l’italoamericano, o rigirargli un “com’è?” alla piemontese, sapendo che capirà. Quando un bambino è sgarbato con i suoi genitori mi torna in mente mia mamma che ripete “una mamma cresce cento figli, cento figli non crescono una mamma” con inflessione pugliese volutamente marcata, per rincarare la dose. E al momento di lasciare una serata per andare a casa mi verrebbe altrettanto naturale dire “sciamaninn” come nel luogo in cui sono cresciuta o “amunì” come direbbe la mia coinquilina siciliana.

Un elenco tutto sommato limitato di situazioni, che però già dimostra un fatto: sentendomi parlare non tutti potrebbero capire chi sono o da dove vengo. Però dimostra anche il suo contrario, e cioè che in molti potrebbero intuire le strade che ho preso per arrivare dove sono, le tappe che ho seguito.

Nel 1300 Dante Alighieri ha unito linguisticamente l’Italia, facendo di un volgare locale una lingua nazionale, teorizzata nel De Vulgari Eloquentia e messa in atto nella Divina Commedia. Oggi, a un anno dal 700° Anniversario dalla morte del Sommo, il nostro idioma ha preso mille altre vie, uniformandosi nella sua difformità. Forse tra altri 700 anni parleremo di quest’epoca come quella che ha fatto della lingua italiana una lingua viva anche al di fuori della letteratura, facendo dell’itineranza la sua identità.

Forse, invece, un istinto primordiale all’appartenenza ci porterà a riconsiderare le nostre origini facendoci sentire più forte il bisogno di parlare come ci hanno insegnato da piccoli, anche a discapito della comprensione reciproca. Ciò che resta, di sicuro, è il segno di un’appartenenza a un Paese, l’Italia, che non è mai stato così unito: sentire il territorio è sentire che siamo tutti migranti in una terra che non vive più solo delle sue regionalità, ma anche della sua interezza.

mariana  Mariana Virginia Scavo

   Twitter @maryscavo

 

 

 

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